L’effetto placebo è da anni molto conosciuto in ambito medico e psicologico ed è sempre più causa di diverse discussioni: la convinzione positive di ognuno di noi sull’effetto di una pillola sia essa in realtà (e al di fuori della nostra conoscenza) un farmaco, un prodotto omeopatico o uno zuccherino (placebo) modifica in meglio (effetto placebo) l’efficacia della cura.
L’effetto placebo è ben conosciuto
Ricercatori, medici e case farmaceutiche conoscono bene l’effetto placebo e nei loro studi viene sempre confrontata a più livelli (cieco, doppio cieco, triplo cieco) l’efficacia di una cura con i risultati di una terapia placebo.
Negli anni i clinici e le ricerche hanno mostrato come l’effetto placebo sia molto più presente in alcune malattie rispetto ad altre, anche se non è ancora possibile stilare una classifica accurata: tra di queste troviamo per esempio la depressione, la gastrite, il colon irritabile, la cervicalgia e tutte quelle malattie che hanno una componente psicologica molto forte!
La ricerca sul placeboma
Una delle domande più frequenti relative all’effetto placebo è: perché con lui ha funzionato e con me no?
La risposta non è per niente semplice e le dinamiche coinvolte sono tantissime oltre che decisamente ancora poco chiare, ma un nuovo spiraglio di conoscenza è arrivato proprio quest’anno (2015).
Una revisione pubblicata da tre ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center della Harvard Universiry su Trends in molecular medicine, ci dimostra come alcuni geni possano rendere alcune persone più inclini a beneficiare dell’effetto placebo.
Kathryn T. Hall e colleghi hanno trovato, analizzando la letteratura scientifica, ben 11 polimorfismi di singolo nucleotide a carico di altrettanti geni coinvolti di situazioni cliniche e terapeutiche diversificate.
Hall ha anche proposto un nome nuovo per descrivere il complesso di geni e variazioni geniche che ruotano intorno all’effetto placebo, il placebome per l’appunto (italianizzato in placeboma).
A cosa potrebbe portare
Le potenziali implicazioni di questa scoperta interesseranno sia un ambito prettamente clinico, ma potrebbero ridefinire anche i principi su cui si basano tutt’oggi i protocolli sperimentali per studiare l’efficacia di un principio attivo.
Si intravede così la possibilità di rendere più precisi i test che rilevano le differenze tra placebo e farmaco e quindi di migliorare le risposte dei pazienti alle terapie.
Portando un esempio, negli studi in cui metà pazienti prendono il principio attivo e metà no bisognerà selezionare con maggiore accuratezza i pazienti magari escludendo quelle persone che per il loro corredo genetico beneficerebbero di qualsiasi trattamento a loro somministrato.
Un altro metodo potrebbe essere quello di affiancare un terzo gruppo che non riceva alcun trattamento per riuscire a correggere i dati analitici e le distorsioni statistiche provocate dalla presenza delle persone più predisposte all’effetto placebo.
Pensandoci bene in un futuro prossimo, una volta sviscerata bene questa scoperta si potrebbe plasmare meglio le cure per ogni paziente in base al suo profilo genetico sfruttando l’effetto placebo in modo più o meno consistente.
Alcune considerazioni
Se l’effetto placebo si basa sul fatto che la persona pensa di prendere un farmaco quando in realtà prende uno zuccherino (per fare un esempio pratico), il fatto di essere a conoscenza di essere un buon risponditore al placebo potrà influenzare o addirittura inficiare l’effetto stesso?
E il medico come dovrà comportarsi?
Per la trasparenza dovrà avvertire il paziente che la tipologia di farmaco prescritta contiene un principio attivo meno potente perché risponde bene al placebo rischiando di compromettere l’effetto stesso e quindi la terapia in generale?
E i pazienti come la prenderanno?
In effetti molte persone credono ancora che l’effetto placebo non esista o addirittura afferma di non credere alla magia.
Purtroppo come spesso accade non è tutto oro ciò che luccica e la strada per avere un’applicazione reale e valida di queste nozioni è ancora lunga e contorta.